Mario Tobino nasce a Viareggio. Ragazzo vivace dopo il ginnasio, per tenere a freno una certa esuberanza e sopravvenuta insofferenza agli studi i genitori lo spediscono per un anno in collegio, a Collesalvetti. Ritornato a casa inizia gli studi liceali a Massa, ma la maturità la ottiene da privatista a Pisa. Il ragazzo già al liceo leggendo Machiavelli e Dante prova una emozione grandissima, segno premonitore della sua sensibilità e attitudine nello scrivere.
Il giovane dal carattere volitivo e insofferente, con una propensione agli studi umanistici legata ad una encomiabile aspirazione di aiutare il prossimo malato, decide di iscriversi a medicina all'Università di Pisa, studi che proseguirono e si conclusero con la laurea in medicina nel 1936 all'Università di Bologna. Contemporaneamente al periodo universitario svolge un'attività letteraria sia pur limitata per il poco tempo a disposizione, pubblicando alcuni scritti su riviste aperte ai contributi dei giovani letterati, e nel 1934 con il consenso positivo della critica pubblica Poesie, la sua prima raccolta di versi.
Tobino dopo la laurea viene chiamato ad assolvere il servizio militare in un primo tempo a Firenze poi come ufficiale medico nel Quinto Alpini a Merano. Tornato a casa a Bologna si specializza in neurologia, psichiatria e medicina legale, e incomincia a lavorare all'ospedale psichiatrico di Ancona. Durante la sua permanenza in questo luogo di sofferenza e di disagio compone una serie di poesie, pubblicate nel 1939 col titolo Amicizia. Allo scoppio della seconda guerra mondiale viene richiamato e inviato sul fronte libico dove rimane fino al 1942: questa esperienza è raccontata nel romanzo Il deserto della Libia (1952) da cui son stati tratti due film, Scemo di guerra (1985) di Dino Risi e Le rose del deserto (2006) di Mario Monicelli.
Ritornato in Italia pubblica la raccolta di poesie Veleno e Amore, il romanzo Il figlio del farmacista e i racconti riuniti sotto il titolo La gelosia del marinaio, e riprende a lavorare in ospedali psichiatrici, prima per alcuni mesi a Firenze passando in seguito definitivamente a quello di Maggiano in provincia di Lucca. Nel 1943 partecipa attivamente alla Resistenza contro i nazifascisti in Toscana, e dalle vicende di lotta partigiana e fratricida prende spunto per scrivere il romanzo Il clandestino.
Nel dopoguerra Tobino si dedica con tutte le sue forze morali e spirituali alle sofferenze dei malati di mente, e contemporaneamente prosegue la sua attività di scrittore, raggiungendo una notorietà sempre più vasta e riconoscimenti numerosi. Muore ad Agrigento l’11 dicembre del 1991.
Il deserto della Libia: http://www.multiupload.com/WZ3IK6SYIZ
“La Libia libera i sogni, la morte esiste anche in questo luogo, ma non porta tristezza” (p.124). La guerra di Libia secondo Tobino: ventun prose ambientate in quest’arida terra che accende sogni e fantasie con i suoi paesaggi, ma è anche teatro di scontri mortali. Inizialmente troviamo la 31° Sezione Sanità “abbandonata a non far niente ai margini di un’oasi, come durante la guerra spesso accade ai reparti” (p.31).
Siamo nell’oasi di Sorman, vicino al confine tunisino, successivamente ci sposteremo verso Tobruk assediata, allora ci si scontrerà con la morte, con la guerra autentica, che però nel deserto assume sempre tinte strane, è anch’essa rivestita di quella polvere che il ghibli fa penetrare ovunque.
La Libia di Tobino è soprattutto il deserto, col suo paesaggio così diverso per gli italiani, “immobile terra senza lacrime, limpida fuliggine” (p.126), abbacinata dal sole, arsa dal calore. “Il sole era presente in tutte le cose” (p.12); “Il deserto sembrava un bianco osso al sole che da secoli non conosce sangue” (p.169).
Nel deserto la fantasia sradica tutti gli ormeggi e s’accende di sogni e visioni, gli uomini sono come imbambolati da tanta luce e calore e non sono più gli stessi, si scatenano in loro paure irrazionali, istinti oppure l’immaginazione galoppa all’inseguimento di visioni di bellezza.
Il deserto è presenza costante, assediante, la guerra si svolge lì, in quei luoghi ostili, sconosciuti, in una terra estranea e nuova, dove i soldati sono stati mandati contro la loro volontà a combattere una guerra assurda male armati, male equipaggiati, impreparati.
Lontano dalla retorica guerrafondaia del regime, Tobino mostra sia gli episodi comico-grotteschi della guerra – ad esempio nella figura del pazzo Oscar Pilli, che diventa capitano medico – sia tragici. Lo stesso Pilli ha un suo risvolto in questo senso: un matto al comando non può che provocare danni.
Tobino non giustifica, né approva la guerra, la vive, la racconta, cerca di comprenderne gli episodi, anche quelli crudeli, come appartenenti a una dimensione umana del vivere, che sempre gli è stata cara.
Antiretorico in tutti i sensi, rileva la stanchezza, la noia che aleggiano presso le truppe italiane, costrette a fughe umilianti o a soste nel deserto senza fare nulla.
Nessuno aveva voglia di combattere quella guerra, desiderio dei soldati è che tutto finisca presto e si possa ritornare a casa, anche se spesso la speranza viene meno e prevale il senso di abbandono: “I nostri soldati non avevano un nemico.Erano uomini che non riuscivano più a ragionare, non sapevano distinguere il vero dal falso, l’ignobile dal nobile.Avevano istinti e affetti. L’istinto di conservarsi; l’affetto per l’Italia, cioè la loro famiglia, la casa, il lavoro”. (p.157)
La visione di Tobino è antieroica, non trionfalistica: gli italiani obnubilati dalla propaganda, la ragione intorpidita, sono senza entusiasmo, demotivati. A volte diventano eroi senza neanche rendersene conto. Molti sono partiti in quanto “richiamati” oppure perché, in una delle tante adunate, avevano firmato per dare la loro disponibilità in caso di guerra, credendo che mai questa si sarebbe verificata.
Il libro è dedicato a tutti coloro che ricevettero la cartolina precetto e non “chiedettero visita” (per imboscarsi). E andarono, come Tobino.
Si ritrovarono spesso in situazioni grottesche, con un esercito non solo male armato, ma oppresso da una burocrazia assurda e intralciante, quella stessa che permette a Pilli di diventare una specie di eroe.
La burocrazia militare italiana “iniziata, procede, cieca, sorda, ottusa come uno scartafaccio, con nessuno, assolutamente nessuno che osi intromettersi a far scorgere la verità. La procedura militare era uno scartafaccio che avanzava con una forza negativa ma tremenda. L’unica forza di quell’esercito italiano” (p. 49). Emblematica la chiusa di “Da Tripoli ad Agedabia”: arrivano gli australiani, gli italiani rimasti vivi vengono fatti prigionieri. Le casse del reparto rimangono abbandonate, gli australiani le aprono pensando ci sia un tesoro e le trovano piene di carte, di circolari che buttano all’aria. “Le circolari ad ogni nuovo soffio saltarono da un ramuscolo per incespicare nel prossimo. Presero a ridere per tutto il deserto” (p. 129).
Alla burocrazia e alla sua ottusità Tobino è e sarà sempre – anche da psichiatra a Magliano – fortemente insofferente così come alla vigliaccheria, a chi dirige dall’alto e se ne sta imboscato senza affrontare guerra e deserto, a chi si fa rimpatriare per conoscenze e poi passa per eroe. A far da contraltare a morte e desolazione, presenti soprattutto nella seconda parte del libro ci sono episodi d’incontro con una civiltà e un popolo diversi, l’interesse verso usanze differenti, c’è la bellezza femminile esotica.
Pagine assai ispirate sono dedicate da Tobino alle donne arabe, avvolte da un’atmosfera leggendaria da Mille e una notte. È il tenente Marcello, un personaggio ricorrente, una sorta di alter ego tobiniano, il protagonista di fugaci e fascinosi incontri con queste donne, che vivono velate nell’ombra delle loro case, ma che celano malizie e audacia insospettabili. Donne di bellezza “inarrivabile” oppure donne che vogliono mostrarsi segretamente allo straniero gentile e raffinato che è medico e dunque può entrare nella loro intimità.
Marcello è un cercatore di bellezza, è un sognatore che ha bisogno di queste apparizioni per ridare colore alla sua vita.
Struggente è la storia di Alessandrina Tynne, la giovane olandese che nel 1869 volle avventurarsi all’interno dell’Africa e fu uccisa in un crudele agguato. Tobino la evoca e il tenente Marcello sogna di lei.
La Libia è anche conoscenza del popolo arabo, Tobino è attento osservatore ed è aperto all’incontro con un’umanità diversa con cui dialogare. La bella figura dell’arabo Mahmùd è significativa in questo senso: “sempre rapido ed energico nei movimenti come se uno spirito guerriero gli bruciasse di continuo nella persona”.
“Il deserto della Libia” è un libro dai numerosi aspetti, non è un diario e non è una cronaca di guerra, è espressione di uno spirito libero, che detesta qualsiasi retorica di ogni colore e rivendica comunque la propria parte di felicità. È voce di una generazione sacrificata, che conservò voglia di vivere ed entusiasmo.
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